martedì 3 luglio 2007

Frame 8. Conoscenza capitale

Si deve ad André Gorz l’idea che nell’attuale fase di evoluzione delle società economicamente più sviluppate le principali risorse da valorizzare non sono più le grandi masse di capitale fisso materiale, bensì il capitale immateriale, ossia il capitale umano, il capitale conoscenza, il capitale intelligenza. Si tratta a suo avviso di un patrimonio di risorse che il sistema capitalistico non è in grado di riprodurre secondo le proprie logiche e i propri metodi e che però gli sono indispensabili perché rappresentano il terreno sul quale si gioca lo scontro politico-sociale presente e futuro. «La conoscenza, detto altrimenti, è divenuta la forza produttiva principale nella cosiddetta knowledge society» .
Si tratta di un cambiamento importante.
L’approccio classico, che associa l’apprendimento all’infanzia e all’adolescenza di ciascuna persona, lascia il posto a una visione che considera l’apprendimento non solo un mezzo per avere maggiori possibilità di accesso al lavoro o per migliorarne la qualità, ma anche uno strumento per comprendere e interpretare meglio la realtà, per essere più capaci di relazionarsi con gli altri, per esercitare con più consapevolezza i diritti di cittadinanza, per partecipare più attivamente alla costruzione del discorso pubblico . Visto dal versante dell’organizzazione produttiva, il lavoratore della conoscenza – diversamente da quello fordista, indotto a spogliarsi delle proprie conoscenze e a ripetere le semplici operazioni necessarie alla catena di montaggio – utilizza appieno la propria cultura e le proprie esperienze, è un componente coinvolto e attivo del processo produttivo.
Nell’età della conoscenza l’attività umana non può essere insomma ridotta alla produzione di merci in vista del loro scambio. Il valore non è più «naturalmente» oggettivabile e ciò si traduce inevitabilmente nella necessità di considerare modalità di accesso ai beni non necessariamente circoscritti all’ambito del mercato. Si afferma un’economia plurale, si determina un processo di continuità tra vita lavorativa e vita privata, le forme personali di sapere e di esperienza diventano altrettanti momenti di integrazione nel processo di valorizzazione dello stesso capitale, viene sfruttato appieno il cosiddetto general intellect, che Gorz definisce come l’insieme di intelligenza, cultura, creatività prodotto da una collettività in attività extralavorative, non remunerate e perciò prive di valore di scambio.
Dato questo sfondo, sono almeno due le domande principali alle quali le teorie cognitive e dell’apprendimento sono chiamate a rispondere in via prioritaria: i) come incontrare, comprendere, interpretare i bisogni culturali e di apprendimento affermatisi nell’at-tuale fase di sviluppo delle società cosiddette avanzate?; ii) come orientare lo sviluppo dai mille volti, metodologici, contenutistici, tecnologici, dell’apprendimento?
Ancora una volta sono le domande a guidarci e, come sempre, sono tante, diverse, non sempre coerenti, spesso contrastanti, le risposte possibili.
Si può aggiungere la propria tessera a quella degli iscritti al club sempre in fermento degli apocalittici. O a quello altrettanto numeroso degli integrati. Si può semplicemente sperare in meglio, immaginare che tutto prima o poi in qualche modo si aggiusti. Si può saggiamente ritenere che questo vecchio mondo è sopravvissuto a catastrofi peggiori. E che tra quelle che ancora lo attendono l’e-learning non è certo la più rilevante. Si può, come il poeta cinese, sospirare profondamente, ma invano, per i fiori che cadono.
La risposta che qui si propone ha caratteristiche diverse, ha una storia importante alle spalle, si basa su un’idea di fondo, si sviluppa secondo un approccio prudenziale.
La storia è quella scritta da studiosi come Herbert H. Simon, Chris Argyris e Donald A. Schon, Ikujro Nonaka e Hirotaka Takeuchi, Karl Wiig, George Siemens.
L’idea è che prendere sul serio il futuro dell’apprendimento a distanza, a livello universitario ma non solo, vuol dire in primo luogo prendere sul serio la necessità di pensare, di fare teoria.
Anche senza la provocatoria genialità con la quale Albert Einstein amava affermare che «se i fatti e la teoria non concordano bisogna cambiare i fatti», rimane il dato incontrovertibile che i nostri modi di conoscere, di imparare, di sapere, di saper fare sono strettamente connessi con ciò che cambia nella società; che società che dichiarano di ritenere il sapere la fonte principale di ricchezza non possono non prendere sul serio l’impegno di assicurare a tutti eguali possibilità di accesso; che sul terreno della conoscenza ancor più che su ogni altro terreno a dettare la frequenza del passo non può che essere chi sta più indietro.
L’approccio prudenziale è quello che contraddistingue il bravo direttore amministrativo che non perde mai di vista la realtà dei numeri e sa governare le tante insidie che in essa si celano e nel caso specifico ci aiuterà da un lato a definire il più precisamente possibile gli ambiti di discussione, e dall’altro a pensare alla risposta in quanto esito, risultato, percorso mai definito una volta per sempre, piuttosto che in quanto principio, assioma, asserto, dato.

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