Il film è Matrix. Il primo della ormai mitica trilogia dei fratelli Wachowski. La scena quella del «Goth club from hell». La musica, frastornante, quella di Rob Zombie. Le parole quelle dell’affascinante Trinity: «It’s the question that drive us, Neo. È la domanda a guidarci, Neo». La domanda è: «What’s Matrix? Che cos’è Matrix?».
Che cos’è l’e-learning? Perché, a quali condizioni, per chi esso può rappresentare, nell’Università in primo luogo, una reale opportunità di sviluppo delle possibilità-capacità di apprendere per tutto l’ar-co della vita? Quale giudizio è possibile dare sull’esperienza «Università telematiche» così come essa si è determinata sulla base del d.i. del 17 aprile 2003 modificato dal d.i. 15 aprile 2005, nell’anno accademico 2005/2006, nel nostro Paese?
Sono queste le nostre domande. Quelle che nella sostanza affronteremo, ci guideranno, nel prosieguo di questo lavoro.
L’idea, per taluni versi la scommessa, è che sia possibile cercare e trovare risposte senza farsi prendere dai pre-giudizi. Senza bisogno di schierarsi a prescindere. Né tra le file degli apocalittici, né tra quelle degli integrati.
Si tratta di un’idea, di una scommessa, niente affatto semplice.
Nelle attuali società globalizzate è sempre più difficile resistere al fascino del «nuovismo», al dominio di modelli culturali nei quali l’aggettivo «nuovo» tende a perdere il proprio significato letterale, a farsi indipendente dall’evento, dal fatto, dalla cosa a cui è associato, per diventare una promessa «a prescindere» di esiti, approdi, risultati migliori di quelli precedenti.
Da una parte ci sono la poca voglia di ricordare, la scarsa propensione a considerare che in realtà tutto ciò che dura mostra, per ciò stesso, di avere valore, la conseguente associazione del termine «vecchio» con superato, sorpassato, logoro, inutile, perdente. Dal-l’altra e conseguentemente ci sono la ricerca a tratti maniacale, molto spesso a-contestualizzata, di novità, la tendenza a perdere di vista il fatto che c’è per definizione sempre spazio per cose nuove semplicemente in quanto successive alle precedenti.
Persino nell’ambito della sfera pubblica associare buona politica a nuova politica pare essere diventato una sorta di imperativo categorico, come dimostra la frequenza con la quale vengono dati nomi nuovi a contenitori, organizzazioni, partiti, concezioni e modi di fare politica «vecchi» con la speranza, inesorabilmente vana, che alla novità del nome corrisponda la novità della «cosa».
L’idea, la scommessa, è che esista insomma uno spazio per evitare una tale deriva. E che tale spazio possa essere esplorato. Con pazienza e rigore. Con interesse e curiosità verso punti di vista diversi, ulteriori. Con la consapevolezza che il prossimo porto nel quale ci ritroveremo a riparare è lo stesso dal quale, presto o tardi, occorrerà ripartire.
Ciò detto, è utile aggiungere che, per rimanere a Matrix, anche la nostra prima domanda ha le sue pillole rosse e blu tra le quali occorre scegliere prima di intraprendere il viaggio:
1) la pillola blu, quella che ci fa tornare a casa e ci fa svegliare convinti di aver sognato mentre tutto ritorna come era prima, è a nostro avviso quella del teorico dell’apprendimento, del progettista di interventi formativi, del tecnologo che pone l’accento, in un ordine davvero non facile da individuare, sulle metodologie didattiche piuttosto che sulle tecnologie utilizzate o sui processi di distribuzione dei contenuti e in questo modo determina decine di definizioni possibili;
2) la pillola rossa, quella che ci aiuta a comprendere la realtà, a scoprire almeno un pezzo di verità costi quel che costi è invece quella che prende atto che un numero sempre maggiore di persone sceglie ogni giorno il World Wide Web come luogo privilegiato dei propri processi di comunicazione e di apprendimento e conseguentemente definisce e-learning qualsiasi processo di apprendimento che avviene attraverso l’utilizzo di Internet.
Per quanto riguarda la seconda domanda, quella relativa ai tratti possibili del futuro prossimo venturo, diremo per ora che i prossimi capitoli possono essere a giusta ragione considerati come il tentativo di dare ad essa, almeno in parte, risposta.
Per quanto riguarda infine la terza domanda che dire se non che ancora una volta e più di ogni altra volta i fatti parlano da soli?
«L’Università che non c’è» non c’è in primo luogo perché la fase di avvio, quella che con linguaggio più specialistico viene definita di start up, è stata e continua ad oggi ad essere garantita dall’ambiguità della norma stessa. E dall’oggettiva, eccessiva elasticità con la quale essa può essere applicata, come dimostra ad esempio l’insopportabi-le articolo che consente a ciascun Ateneo di «raggiungere i requisiti minimi di docenza entro la durata normale del corso che si attiva».
Come spiegare altrimenti il fatto che quattro Atenei che hanno in organico complessivamente 2 professori ordinari, 0 professori associati e un ricercatore dichiarano al contempo un’utenza sostenibile pari a 7.396 studenti? E, nel caso specifico dell’Università «Telematica Management Audiovisivo TEL.M.A.», come si è potuto concederle di avviare le attività senza che avesse i requisiti minimi di docenza e la dotazione logistica e le attrezzature tecniche per operare? Qual è la ratio che permette di dichiarare a distanza di poche righe che l’utenza disponibile è indicata in 200, 1.000 e 950 unità quando non esistono docenti sufficienti e la qualità e la quantità delle strutture risultano non conformi agli standard richiesti? E che dire ancora di convenzioni che definiscono partnership tra i contraenti, dispensano crediti con criteri rigorosamente a pioggia, prospettano una relazione diretta tra la possibilità di fare gli esami mancanti nella sede dell’Ordine o dell’Associazione alla quale si aderisce e il numero di aderenti che si iscrive ai corsi?
Sta di fatto che la qualità e la quantità di eccezioni, anomalie, mancato rispetto degli standard minimi iniziali sono, pur in un quadro di formale rispetto della norma, talmente tanti da apparire davvero insostenibili, in particolar modo in un ambito, quello che si riferisce all’istruzione universitaria, assolutamente strategico per il sistema Paese.
A chi giova tutto questo? Perché dare questo tipo di risposta alla domanda di istruzione universitaria on line incuranti delle grida di allarme che da più parti pervenivano e mentre nel resto del mondo, non solo quello economicamente più sviluppato, la ricerca, la sperimentazione, le buone pratiche facevano passi da gigante?
Sono state queste domande a guidarci. Le risposte sono venute quasi da sole.
Risposte che, se da un lato confermano il deficit di virtù civiche di cui soffre il Paese, dall’altro evidenziano, motivano, dimostrano, la possibilità di una decisa inversione di rotta.
L’idea in questo caso è che non servano fabbriche di lauree. Che occorrano fabbriche di idee. Di conoscenze. Di competenze. Di futuro. E che i sistemi di apprendimento a distanza possano rappresentare una risorsa importante anche nel nostro Paese. Ma di questo si avrà modo di dire diffusamente nel corso dei prossimi due capitoli.
Che cos’è l’e-learning? Perché, a quali condizioni, per chi esso può rappresentare, nell’Università in primo luogo, una reale opportunità di sviluppo delle possibilità-capacità di apprendere per tutto l’ar-co della vita? Quale giudizio è possibile dare sull’esperienza «Università telematiche» così come essa si è determinata sulla base del d.i. del 17 aprile 2003 modificato dal d.i. 15 aprile 2005, nell’anno accademico 2005/2006, nel nostro Paese?
Sono queste le nostre domande. Quelle che nella sostanza affronteremo, ci guideranno, nel prosieguo di questo lavoro.
L’idea, per taluni versi la scommessa, è che sia possibile cercare e trovare risposte senza farsi prendere dai pre-giudizi. Senza bisogno di schierarsi a prescindere. Né tra le file degli apocalittici, né tra quelle degli integrati.
Si tratta di un’idea, di una scommessa, niente affatto semplice.
Nelle attuali società globalizzate è sempre più difficile resistere al fascino del «nuovismo», al dominio di modelli culturali nei quali l’aggettivo «nuovo» tende a perdere il proprio significato letterale, a farsi indipendente dall’evento, dal fatto, dalla cosa a cui è associato, per diventare una promessa «a prescindere» di esiti, approdi, risultati migliori di quelli precedenti.
Da una parte ci sono la poca voglia di ricordare, la scarsa propensione a considerare che in realtà tutto ciò che dura mostra, per ciò stesso, di avere valore, la conseguente associazione del termine «vecchio» con superato, sorpassato, logoro, inutile, perdente. Dal-l’altra e conseguentemente ci sono la ricerca a tratti maniacale, molto spesso a-contestualizzata, di novità, la tendenza a perdere di vista il fatto che c’è per definizione sempre spazio per cose nuove semplicemente in quanto successive alle precedenti.
Persino nell’ambito della sfera pubblica associare buona politica a nuova politica pare essere diventato una sorta di imperativo categorico, come dimostra la frequenza con la quale vengono dati nomi nuovi a contenitori, organizzazioni, partiti, concezioni e modi di fare politica «vecchi» con la speranza, inesorabilmente vana, che alla novità del nome corrisponda la novità della «cosa».
L’idea, la scommessa, è che esista insomma uno spazio per evitare una tale deriva. E che tale spazio possa essere esplorato. Con pazienza e rigore. Con interesse e curiosità verso punti di vista diversi, ulteriori. Con la consapevolezza che il prossimo porto nel quale ci ritroveremo a riparare è lo stesso dal quale, presto o tardi, occorrerà ripartire.
Ciò detto, è utile aggiungere che, per rimanere a Matrix, anche la nostra prima domanda ha le sue pillole rosse e blu tra le quali occorre scegliere prima di intraprendere il viaggio:
1) la pillola blu, quella che ci fa tornare a casa e ci fa svegliare convinti di aver sognato mentre tutto ritorna come era prima, è a nostro avviso quella del teorico dell’apprendimento, del progettista di interventi formativi, del tecnologo che pone l’accento, in un ordine davvero non facile da individuare, sulle metodologie didattiche piuttosto che sulle tecnologie utilizzate o sui processi di distribuzione dei contenuti e in questo modo determina decine di definizioni possibili;
2) la pillola rossa, quella che ci aiuta a comprendere la realtà, a scoprire almeno un pezzo di verità costi quel che costi è invece quella che prende atto che un numero sempre maggiore di persone sceglie ogni giorno il World Wide Web come luogo privilegiato dei propri processi di comunicazione e di apprendimento e conseguentemente definisce e-learning qualsiasi processo di apprendimento che avviene attraverso l’utilizzo di Internet.
Per quanto riguarda la seconda domanda, quella relativa ai tratti possibili del futuro prossimo venturo, diremo per ora che i prossimi capitoli possono essere a giusta ragione considerati come il tentativo di dare ad essa, almeno in parte, risposta.
Per quanto riguarda infine la terza domanda che dire se non che ancora una volta e più di ogni altra volta i fatti parlano da soli?
«L’Università che non c’è» non c’è in primo luogo perché la fase di avvio, quella che con linguaggio più specialistico viene definita di start up, è stata e continua ad oggi ad essere garantita dall’ambiguità della norma stessa. E dall’oggettiva, eccessiva elasticità con la quale essa può essere applicata, come dimostra ad esempio l’insopportabi-le articolo che consente a ciascun Ateneo di «raggiungere i requisiti minimi di docenza entro la durata normale del corso che si attiva».
Come spiegare altrimenti il fatto che quattro Atenei che hanno in organico complessivamente 2 professori ordinari, 0 professori associati e un ricercatore dichiarano al contempo un’utenza sostenibile pari a 7.396 studenti? E, nel caso specifico dell’Università «Telematica Management Audiovisivo TEL.M.A.», come si è potuto concederle di avviare le attività senza che avesse i requisiti minimi di docenza e la dotazione logistica e le attrezzature tecniche per operare? Qual è la ratio che permette di dichiarare a distanza di poche righe che l’utenza disponibile è indicata in 200, 1.000 e 950 unità quando non esistono docenti sufficienti e la qualità e la quantità delle strutture risultano non conformi agli standard richiesti? E che dire ancora di convenzioni che definiscono partnership tra i contraenti, dispensano crediti con criteri rigorosamente a pioggia, prospettano una relazione diretta tra la possibilità di fare gli esami mancanti nella sede dell’Ordine o dell’Associazione alla quale si aderisce e il numero di aderenti che si iscrive ai corsi?
Sta di fatto che la qualità e la quantità di eccezioni, anomalie, mancato rispetto degli standard minimi iniziali sono, pur in un quadro di formale rispetto della norma, talmente tanti da apparire davvero insostenibili, in particolar modo in un ambito, quello che si riferisce all’istruzione universitaria, assolutamente strategico per il sistema Paese.
A chi giova tutto questo? Perché dare questo tipo di risposta alla domanda di istruzione universitaria on line incuranti delle grida di allarme che da più parti pervenivano e mentre nel resto del mondo, non solo quello economicamente più sviluppato, la ricerca, la sperimentazione, le buone pratiche facevano passi da gigante?
Sono state queste domande a guidarci. Le risposte sono venute quasi da sole.
Risposte che, se da un lato confermano il deficit di virtù civiche di cui soffre il Paese, dall’altro evidenziano, motivano, dimostrano, la possibilità di una decisa inversione di rotta.
L’idea in questo caso è che non servano fabbriche di lauree. Che occorrano fabbriche di idee. Di conoscenze. Di competenze. Di futuro. E che i sistemi di apprendimento a distanza possano rappresentare una risorsa importante anche nel nostro Paese. Ma di questo si avrà modo di dire diffusamente nel corso dei prossimi due capitoli.
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