Il nostro viaggio alla ricerca della teoria (dell’apprendimento) perduta può trovare forse un primo, provvisorio, punto di approdo che potrebbe essere così come di seguito sintetizzato:
1) il valore della risorsa educazione è per molti aspetti il prodotto delle connessioni esistenti tra la possibilità di disporre di più strumenti, linguaggi, conoscenze, competenze, e la possibilità di vivere, con altri, una vita maggiormente degna di essere vissuta;
2) la possibilità di conoscere, apprendere, imparare, per tutto l’arco della vita, è una risorsa fondamentale per avere maggiori opportunità, per ridurre i rischi di esclusione o emarginazione, per difendere meglio i propri diritti, per partecipare in maniera più consapevole alla costruzione del discorso pubblico, per incrementare il capitale sociale disponibile;
3) la qualità del sistema educativo, la credibilità, l’autonomia, il ruolo e la funzione delle sue istituzioni ad ogni livello, le attività e il protagonismo di soggetti pubblici e privati hanno un’incidenza rilevante nella definizione di politiche che si propongano credibilmente di sostenere le persone nei loro tentativi di perseguire variegati progetti di vita e più soddisfacenti livelli di cittadinanza, e di non finire preda della coercizione occulta o palese del potere dell’informazione.
Quello dell’educazione è insomma per molte ragioni, a cominciare da quelle appena esplicitate, un compito che spetta in primo luogo a chi, ad ogni livello, ha responsabilità di governo, anche se in una visione più allargata i soggetti impegnati possono essere molteplici, dato che in definitiva ciò che conta di più è il bene pubblico, non chi lo eroga; in particolare per quanto riguarda il nostro Paese, proprio la difficoltà di cogliere appieno la stretta relazione esistente tra contenuti dell’azione politica, investimento in risorse educative, sviluppo e valorizzazione dei luoghi dell’inclusione è una delle ragioni principali per le quali non si è diffusa una cultura della ricerca e dell’innovazione. Gli imprenditori e le aziende che hanno scelto l’innovazione sono rimasti sostanzialmente degli esempi isolati; il sistema nel suo complesso e in particolare la sua parte più debole, quella meridionale, sono rimasti così fortemente penalizzati.
I dati che emergono dall’edizione 2006 dell’European Innovation Scoreboard, redatto per conto della Commissione europea dal Maastricht Economic Research Institute on Innovation and Technology (MERIT) e dell’Institute for the Protection and Security of the Citizen (JRC) e che analizza la propensione all’innovazione di 33 Paesi (i 27 UE più Croazia, Giappone, Islanda, Norvegia, Svizzera, Turchia e USA) suggeriscono a questo proposito qualcosa di sicuramente significativo.
Dalla ricerca emerge infatti che i Paesi che presentano le caratteristiche, per produzione e diffusione di conoscenza, realizzazione di applicazioni scientifiche, registrazioni di brevetti, ecc., per essere classificati come leader d’innovazione sono 6 e precisamente (in ordine di risultato): Finlandia, Svezia, Svizzera, Giappone, Danimarca e Germania. I Paesi che invece hanno adottato tecnologia e prodotto know how più degli altri, e per questo sono definiti follower d’inno-vazione sono 8: USA, Regno Unito, Islanda, Francia, Paesi Bassi, Belgio, Austria e Irlanda. Ancora 8 sono i Paesi che si sono adoperati in maniera significativa per migliorarsi e precisamente: Slovenia, Cechia, Lituania, Portogallo, Polonia, Lettonia, Grecia e Bulgaria. I Paesi che invece si sono semplicemente fatti trainare sono 7: Estonia, Spagna, Italia, Malta, Ungheria, Croazia e Slovacchia. Infine sono 5 i Paesi che sono stati classificati a livello individuale: Cipro, Lussemburgo, Norvegia, Romania e Turchia.
Non solo a livello individuale o tra Paesi tradizionalmente considerati ricchi e Paesi poveri, ma anche all’interno dei nostri brulicanti e moderni Paesi permangono insomma, su diversi piani e a più livelli, differenze rilevanti – in termini di possibilità di accesso, di esigibilità dei diritti di cittadinanza, di opportunità disponibili, di capacità di difendersi dal potere o di esercitarlo – a seconda delle conoscenze, delle competenze, dei saperi, di ciascuno. Uno dei principali compiti di uno Stato sociale ridisegnato, in particolar modo ma non solo nella parte di mondo che siamo soliti definire avanzata, rimane perciò quello di garantire l’accesso alla formazione e alla conoscenza per tutto l’arco della vita.
In definitiva, vista dal versante delle istituzioni, pubbliche e private, ad ogni livello, l’importanza della risorsa educazione sta nel ruolo determinante che essa può avere nella definizione di strategie, percorsi, progetti, che mirino a fornire strumenti, alfabeti, conoscenze, in grado di sostenere le persone nei loro quotidiani sforzi per vivere da cittadini e non da sudditi, e a ridurre il rischio che la consistenza e la profondità delle trasformazioni in atto determinino nuove grandi sacche di esclusione, ulteriori consistenti fasce di popolazione ad aspettative ristrette. Vista dal versante delle persone, la possibilità di imparare per tutto l’arco della vita ha invece, tra i suoi tanti e significativi vantaggi, quello di essere la principale risorsa che ciascuno di noi ha a disposizione per acquisire le capacità critiche necessarie a selezionare le diverse informazioni e per avere più opportunità ai tavoli della socialità, del lavoro, dello studio, del divertimento, e dunque della vita.
L’idea è insomma che in una società un po’ più giusta o anche solo meno ingiusta le persone possano ragionevolmente e con consapevolezza pensare di essere perché imparano e che su questo terreno sia possibile determinare convergenze significative tra soggetti e interessi diversi.
Dal versante del lavoro, ad esempio, conoscere di più significa avere più diritti e maggiore capacità di tutelare quelli acquisiti, essere più liberi, migliorare la propria occupabilità, lavorare con maggiore soddisfazione. Dal versante dell’impresa, poter contare su lavoratori più scolarizzati e professionalizzati è un fattore competitivo sempre più determinante, in particolar modo per quelle imprese che puntano sull’innovazione, sulla qualità di processo e di prodotto. Dal versante istituzionale (Unione Europea, governi nazionali, Länder, regioni, distretti, ecc.), mettere in atto politiche per la diffusione della conoscenza vuol dire aumentare la competitività dei sistemi territoriali e locali nel loro complesso, definire sistemi di protezione sociale più innovativi e avanzati, favorire processi di inclusione e di partecipazione dei cittadini.
Impariamo, dunque siamo.
E con questo è tempo davvero di procedere oltre.
1) il valore della risorsa educazione è per molti aspetti il prodotto delle connessioni esistenti tra la possibilità di disporre di più strumenti, linguaggi, conoscenze, competenze, e la possibilità di vivere, con altri, una vita maggiormente degna di essere vissuta;
2) la possibilità di conoscere, apprendere, imparare, per tutto l’arco della vita, è una risorsa fondamentale per avere maggiori opportunità, per ridurre i rischi di esclusione o emarginazione, per difendere meglio i propri diritti, per partecipare in maniera più consapevole alla costruzione del discorso pubblico, per incrementare il capitale sociale disponibile;
3) la qualità del sistema educativo, la credibilità, l’autonomia, il ruolo e la funzione delle sue istituzioni ad ogni livello, le attività e il protagonismo di soggetti pubblici e privati hanno un’incidenza rilevante nella definizione di politiche che si propongano credibilmente di sostenere le persone nei loro tentativi di perseguire variegati progetti di vita e più soddisfacenti livelli di cittadinanza, e di non finire preda della coercizione occulta o palese del potere dell’informazione.
Quello dell’educazione è insomma per molte ragioni, a cominciare da quelle appena esplicitate, un compito che spetta in primo luogo a chi, ad ogni livello, ha responsabilità di governo, anche se in una visione più allargata i soggetti impegnati possono essere molteplici, dato che in definitiva ciò che conta di più è il bene pubblico, non chi lo eroga; in particolare per quanto riguarda il nostro Paese, proprio la difficoltà di cogliere appieno la stretta relazione esistente tra contenuti dell’azione politica, investimento in risorse educative, sviluppo e valorizzazione dei luoghi dell’inclusione è una delle ragioni principali per le quali non si è diffusa una cultura della ricerca e dell’innovazione. Gli imprenditori e le aziende che hanno scelto l’innovazione sono rimasti sostanzialmente degli esempi isolati; il sistema nel suo complesso e in particolare la sua parte più debole, quella meridionale, sono rimasti così fortemente penalizzati.
I dati che emergono dall’edizione 2006 dell’European Innovation Scoreboard, redatto per conto della Commissione europea dal Maastricht Economic Research Institute on Innovation and Technology (MERIT) e dell’Institute for the Protection and Security of the Citizen (JRC) e che analizza la propensione all’innovazione di 33 Paesi (i 27 UE più Croazia, Giappone, Islanda, Norvegia, Svizzera, Turchia e USA) suggeriscono a questo proposito qualcosa di sicuramente significativo.
Dalla ricerca emerge infatti che i Paesi che presentano le caratteristiche, per produzione e diffusione di conoscenza, realizzazione di applicazioni scientifiche, registrazioni di brevetti, ecc., per essere classificati come leader d’innovazione sono 6 e precisamente (in ordine di risultato): Finlandia, Svezia, Svizzera, Giappone, Danimarca e Germania. I Paesi che invece hanno adottato tecnologia e prodotto know how più degli altri, e per questo sono definiti follower d’inno-vazione sono 8: USA, Regno Unito, Islanda, Francia, Paesi Bassi, Belgio, Austria e Irlanda. Ancora 8 sono i Paesi che si sono adoperati in maniera significativa per migliorarsi e precisamente: Slovenia, Cechia, Lituania, Portogallo, Polonia, Lettonia, Grecia e Bulgaria. I Paesi che invece si sono semplicemente fatti trainare sono 7: Estonia, Spagna, Italia, Malta, Ungheria, Croazia e Slovacchia. Infine sono 5 i Paesi che sono stati classificati a livello individuale: Cipro, Lussemburgo, Norvegia, Romania e Turchia.
Non solo a livello individuale o tra Paesi tradizionalmente considerati ricchi e Paesi poveri, ma anche all’interno dei nostri brulicanti e moderni Paesi permangono insomma, su diversi piani e a più livelli, differenze rilevanti – in termini di possibilità di accesso, di esigibilità dei diritti di cittadinanza, di opportunità disponibili, di capacità di difendersi dal potere o di esercitarlo – a seconda delle conoscenze, delle competenze, dei saperi, di ciascuno. Uno dei principali compiti di uno Stato sociale ridisegnato, in particolar modo ma non solo nella parte di mondo che siamo soliti definire avanzata, rimane perciò quello di garantire l’accesso alla formazione e alla conoscenza per tutto l’arco della vita.
In definitiva, vista dal versante delle istituzioni, pubbliche e private, ad ogni livello, l’importanza della risorsa educazione sta nel ruolo determinante che essa può avere nella definizione di strategie, percorsi, progetti, che mirino a fornire strumenti, alfabeti, conoscenze, in grado di sostenere le persone nei loro quotidiani sforzi per vivere da cittadini e non da sudditi, e a ridurre il rischio che la consistenza e la profondità delle trasformazioni in atto determinino nuove grandi sacche di esclusione, ulteriori consistenti fasce di popolazione ad aspettative ristrette. Vista dal versante delle persone, la possibilità di imparare per tutto l’arco della vita ha invece, tra i suoi tanti e significativi vantaggi, quello di essere la principale risorsa che ciascuno di noi ha a disposizione per acquisire le capacità critiche necessarie a selezionare le diverse informazioni e per avere più opportunità ai tavoli della socialità, del lavoro, dello studio, del divertimento, e dunque della vita.
L’idea è insomma che in una società un po’ più giusta o anche solo meno ingiusta le persone possano ragionevolmente e con consapevolezza pensare di essere perché imparano e che su questo terreno sia possibile determinare convergenze significative tra soggetti e interessi diversi.
Dal versante del lavoro, ad esempio, conoscere di più significa avere più diritti e maggiore capacità di tutelare quelli acquisiti, essere più liberi, migliorare la propria occupabilità, lavorare con maggiore soddisfazione. Dal versante dell’impresa, poter contare su lavoratori più scolarizzati e professionalizzati è un fattore competitivo sempre più determinante, in particolar modo per quelle imprese che puntano sull’innovazione, sulla qualità di processo e di prodotto. Dal versante istituzionale (Unione Europea, governi nazionali, Länder, regioni, distretti, ecc.), mettere in atto politiche per la diffusione della conoscenza vuol dire aumentare la competitività dei sistemi territoriali e locali nel loro complesso, definire sistemi di protezione sociale più innovativi e avanzati, favorire processi di inclusione e di partecipazione dei cittadini.
Impariamo, dunque siamo.
E con questo è tempo davvero di procedere oltre.
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