martedì 3 luglio 2007

Frame 15. La profezia di Drucker

Quando Peter Drucker, come ha ricordato un giornalista del Guardian, pronostica la fine delle Università come istituzioni residenziali e la loro trasformazione in fornitori di contenuti per produttori di corsi a distanza, sono in molti a rimanere affascinati dalla lieta novella.
Un po’ di anni dopo, la realtà continua inevitabilmente a presentarsi assai più controversa di quanto la fantasia di Drucker avrebbe potuto immaginare; permane, nonostante i tanti profeti impegnati a celebrare le virtù taumaturgiche della tecnologia, uno spazio decisamente ampio e significativo tra ciò che potrebbe essere o si potrebbe fare e ciò che concretamente è, e si fa.
A guardarla con quella stessa logica globale che si è soliti invocare per giustificare le necessità, le ingiustizie, di sua maestà il Capitale, la faccenda è fin troppo evidente, come dimostrano i 100 milioni di bambini che, secondo l’UNICEF, ancora nel 2005 non sapevano leggere o scrivere. Ma persino se si restringe il campo allo sviluppo dell’e-learning nei paesi economicamente più sviluppati, basta volersene accorgere per vedere una realtà che si contraddistingue soprattutto per: i) il deficit di conoscenze, competenze, padronanza delle nuove tecnologie; ii) la persistenza di sacche disperatamente ampie di vero e proprio analfabetismo digitale; iii) la miriade di docenti che continuano a portare avanti programmi che agli studenti non interessano e a dare rispose a domande che questi ultimi non hanno mai fatto; iv) la difficoltà a valorizzare quelle che Roger Schank ha definito «forme naturali di apprendimento» ; v) i tentativi forsennati di ridurre i costi di insegnamento; vi) la diffusa tendenza a considerare l’e-learning come un processo di trasmissione più che di costruzione della conoscenza; vii) l’eccessiva insistenza su un’idea di apprendimento basato sulle risorse pedagogiche riutilizzabili (di norma courseware formali e brevi, immediati e di orientamento pratico, disponibili in Internet o su CD-Rom, separati dai contesti lavorativi, sconnessi dai rapporti sociali, che trasmettono informazioni e non conoscenza, che chiedono di imparare e non di selezionare).
Il risultato?
La storia dell’e-learning continua ancora oggi ad essere troppo ricca di promesse mancate, di iniziative che non hanno raggiunto reali livelli di sostenibilità (nel senso che non possono sopravvivere senza denaro pubblico), di significativi, talvolta clamorosi, fallimenti, come ha documentato in un suo saggio Joergen Bang, responsabile del dipartimento Information and Media Studies dell’Univer-sità di Aarhus, Danimarca .
I dati principali utilizzati da Bang per sostenere la sua tesi possono essere così come di seguito sintetizzati:

1. la New York University ha investito 20 milioni di dollari in NYU on line senza di fatto aver mai avviato corsi in modalità e-learning;
2. la Columbia University, con altri 14 enti tra Università, biblioteche e musei, ha stanziato 40 milioni di dollari per fondare Fathom ottenendo in pratica un identico risultato;
3. la Cornell University ha investito 12 milioni di dollari in eCornell senza che gli iscritti abbiano raggiunto un numero davvero significativo;
4. la Open University del Regno Unito ha registrato una perdita di circa 20 milioni di dollari nel tentativo di fornire prodotti di apprendimento al mercato statunitense;
5. la e-University del Regno Unito (UKeU), 60 milioni di sterline investite (fondi pubblici), presentata come l’erede mondiale del-l’Open University nel XXI secolo, ha chiuso i battenti 5 anni dopo la sua nascita senza aver mai ricevuto appoggio finanziario dai soci commerciali e avendo conquistato appena 900 studenti a fronte dei 5.000 preventivati;
6. la Dutch Digital Universiteit dei Paesi Bassi, un consorzio formato da Università, imprese ICT, case editrici, fa talmente fatica a decollare che i suoi soci stanno pensando di ritirarsi;
7. l’Università Virtuale della Finlandia e la Net-University della Svezia – entrambe iniziative governative – hanno incrementato il numero di corsi on line, nel tentativo di attirare studenti di altre istituzioni e regioni del Paese, ma la tanto attesa collaborazione istituzionale è tuttora inesistente;
8. l’Università Virtuale di Bavaria, un’altra iniziativa governativa, nonostante offra corsi in modalità telematica agli studenti di tutte le istituzioni della Bavaria, non ha ad oggi prodotto un effettivo miglioramento della collaborazione interistituzionale;
9. le esperienze positive, come ad esempio quella rappresentata dalla University of Phoenix, si devono alla capacità di operare in mercati di nicchia e specializzati come quelli del business e della sanità.

Naturalmente Bang non è stato il solo a mettere, come si usa dire, il dito sulla piaga.
Già in un rapporto OCSE del 2001 veniva ad esempio sottolineato come non ci sia «nessuna prova definitiva del fatto che dagli investimenti in TIC effettuati dal settore pubblico sia derivato un migliore rendimento degli insegnanti e/o degli studenti, né che ne sia derivato un miglioramento della qualità e dell’accesso alle risorse formative nella misura pronosticata» .
Più recentemente, nel 2005, ancora l’OCSE sosteneva in un altro suo rapporto che

in realtà, fino ad oggi l’e-learning non ha rivoluzionato né l’apprendi-mento né l’insegnamento. Gli originali e ambiziosi metodi di insegnamento e di apprendimento che dovevano scaturire dalle TIC sono allo stato embrionale o devono essere ancora inventati. […] L’adozione di sistemi di gestione dell’apprendimento (SGA) [...] sembra essere una delle caratteristiche più notevoli dello sviluppo dell’e-learning nell’istruzione superiore su scala mondiale. [...] L’attuale immaturità dell’apprendimen-to on-line viene dimostrata dalla scarsa adozione di sistemi di gestione di contenuti [...]. Le TIC hanno preso piede nell’istruzione superiore, ma il loro impatto è stato maggiore nei servizi amministrativi (per esempio ammissioni, iscrizioni, pagamento tasse, acquisizioni) che negli aspetti pedagogici basilari dell’aula» .

Gli stessi dati resi pubblici dalla Commissione Europea nell’ambito del documento «Mobilitare le intelligenze europee: permettere alle Università di dare un contributo pieno alla strategia di Lisbona» evidenziano come le Università europee si dimostrino «poco reattive ai cambiamenti sociali e al paradigma dell’apprendimento permanente» e non siano in grado, diversamente da ciò che accade ad esempio negli Stati Uniti, di dare il contributo che sarebbe necessario per sostenere la crescita economica, la coesione sociale, l’occupazione.
Da tale documento emerge anche che nei paesi membri solo il 21 per cento della popolazione in età lavorativa è dotato di laurea o titolo equivalente, a fronte del 43 per cento del Canada, del 38 per cento degli Stati Uniti e del 36 per cento del Giappone, e che naturalmente il minor rendimento delle Università europee, il numero inferiore di pubblicazioni scientifiche, brevetti e premi Nobel dipendono anche dal consistente divario dei finanziamenti dato che in Europa, alla pari del Giappone, si spende in media per l’Università l’1,1 per cento del PIL, a fronte del 2,5 per cento del Canada e del 2,7 per cento degli Stati Uniti (per raggiungere il livello di risorse impegnato dagli USA l’Europa dovrebbe spendere 150 miliardi di euro in più all’anno, anche se c’è da dire che negli USA alla spesa per l’istruzione concorrono in maniera significativa i privati e le imprese).
Di tenore non molto diverso sono le indicazioni che emergono dall’indagine comparativa ALL («Adult Literacy and Life skills») promossa ancora dall’OCSE in 7 Paesi (Bermuda, Canada, Italia, Norvegia, Svizzera, Stati Uniti e Nuovo León Mexico) e realizzata su un campione di cittadini di età compresa tra i 16 e i 65 anni (6.853 le persone coinvolte per quanto riguarda l’Italia), che in pratica dimostrano quanto sia ancora esasperatamente nutrito il numero di coloro che hanno un livello di competenze e di conoscenze al di sotto della sufficienza (per quanto riguarda l’Italia le persone che si trovano al livello più basso, il primo, rappresentano il 46,1% del totale nel caso delle competenze di linguaggio, il 48,8% nel caso delle abilità di scrittura, il 41,7% nel caso delle abilità di calcolo, mentre risultano essere ben il 69,6% del totale coloro che non possiedono sufficienti capacità di problem solving).
Cosa aggiungere ancora?
Che tutto questo rappresenta per chi scrive un dato di fatto, un punto fermo dal quale semplicemente non è possibile prescindere.
Messo il punto non si tratta però di fermarsi, con sguardo più o meno esterrefatto, a guardare, ma di provare finalmente ad andare daccapo, in cerca di ulteriori punti di vista da raccontare, di esperienze da valorizzare, di sentieri da esplorare, di opportunità da cogliere.

Nessun commento: