martedì 3 luglio 2007

Frame 14. Impariamo, dunque siamo

Il nostro viaggio alla ricerca della teoria (dell’apprendimento) perduta può trovare forse un primo, provvisorio, punto di approdo che potrebbe essere così come di seguito sintetizzato:

1) il valore della risorsa educazione è per molti aspetti il prodotto delle connessioni esistenti tra la possibilità di disporre di più strumenti, linguaggi, conoscenze, competenze, e la possibilità di vivere, con altri, una vita maggiormente degna di essere vissuta;
2) la possibilità di conoscere, apprendere, imparare, per tutto l’arco della vita, è una risorsa fondamentale per avere maggiori opportunità, per ridurre i rischi di esclusione o emarginazione, per difendere meglio i propri diritti, per partecipare in maniera più consapevole alla costruzione del discorso pubblico, per incrementare il capitale sociale disponibile;
3) la qualità del sistema educativo, la credibilità, l’autonomia, il ruolo e la funzione delle sue istituzioni ad ogni livello, le attività e il protagonismo di soggetti pubblici e privati hanno un’incidenza rilevante nella definizione di politiche che si propongano credibilmente di sostenere le persone nei loro tentativi di perseguire variegati progetti di vita e più soddisfacenti livelli di cittadinanza, e di non finire preda della coercizione occulta o palese del potere dell’informazione.

Quello dell’educazione è insomma per molte ragioni, a cominciare da quelle appena esplicitate, un compito che spetta in primo luogo a chi, ad ogni livello, ha responsabilità di governo, anche se in una visione più allargata i soggetti impegnati possono essere molteplici, dato che in definitiva ciò che conta di più è il bene pubblico, non chi lo eroga; in particolare per quanto riguarda il nostro Paese, proprio la difficoltà di cogliere appieno la stretta relazione esistente tra contenuti dell’azione politica, investimento in risorse educative, sviluppo e valorizzazione dei luoghi dell’inclusione è una delle ragioni principali per le quali non si è diffusa una cultura della ricerca e dell’innovazione. Gli imprenditori e le aziende che hanno scelto l’innovazione sono rimasti sostanzialmente degli esempi isolati; il sistema nel suo complesso e in particolare la sua parte più debole, quella meridionale, sono rimasti così fortemente penalizzati.
I dati che emergono dall’edizione 2006 dell’European Innovation Scoreboard, redatto per conto della Commissione europea dal Maastricht Economic Research Institute on Innovation and Technology (MERIT) e dell’Institute for the Protection and Security of the Citizen (JRC) e che analizza la propensione all’innovazione di 33 Paesi (i 27 UE più Croazia, Giappone, Islanda, Norvegia, Svizzera, Turchia e USA) suggeriscono a questo proposito qualcosa di sicuramente significativo.
Dalla ricerca emerge infatti che i Paesi che presentano le caratteristiche, per produzione e diffusione di conoscenza, realizzazione di applicazioni scientifiche, registrazioni di brevetti, ecc., per essere classificati come leader d’innovazione sono 6 e precisamente (in ordine di risultato): Finlandia, Svezia, Svizzera, Giappone, Danimarca e Germania. I Paesi che invece hanno adottato tecnologia e prodotto know how più degli altri, e per questo sono definiti follower d’inno-vazione sono 8: USA, Regno Unito, Islanda, Francia, Paesi Bassi, Belgio, Austria e Irlanda. Ancora 8 sono i Paesi che si sono adoperati in maniera significativa per migliorarsi e precisamente: Slovenia, Cechia, Lituania, Portogallo, Polonia, Lettonia, Grecia e Bulgaria. I Paesi che invece si sono semplicemente fatti trainare sono 7: Estonia, Spagna, Italia, Malta, Ungheria, Croazia e Slovacchia. Infine sono 5 i Paesi che sono stati classificati a livello individuale: Cipro, Lussemburgo, Norvegia, Romania e Turchia.
Non solo a livello individuale o tra Paesi tradizionalmente considerati ricchi e Paesi poveri, ma anche all’interno dei nostri brulicanti e moderni Paesi permangono insomma, su diversi piani e a più livelli, differenze rilevanti – in termini di possibilità di accesso, di esigibilità dei diritti di cittadinanza, di opportunità disponibili, di capacità di difendersi dal potere o di esercitarlo – a seconda delle conoscenze, delle competenze, dei saperi, di ciascuno. Uno dei principali compiti di uno Stato sociale ridisegnato, in particolar modo ma non solo nella parte di mondo che siamo soliti definire avanzata, rimane perciò quello di garantire l’accesso alla formazione e alla conoscenza per tutto l’arco della vita.
In definitiva, vista dal versante delle istituzioni, pubbliche e private, ad ogni livello, l’importanza della risorsa educazione sta nel ruolo determinante che essa può avere nella definizione di strategie, percorsi, progetti, che mirino a fornire strumenti, alfabeti, conoscenze, in grado di sostenere le persone nei loro quotidiani sforzi per vivere da cittadini e non da sudditi, e a ridurre il rischio che la consistenza e la profondità delle trasformazioni in atto determinino nuove grandi sacche di esclusione, ulteriori consistenti fasce di popolazione ad aspettative ristrette. Vista dal versante delle persone, la possibilità di imparare per tutto l’arco della vita ha invece, tra i suoi tanti e significativi vantaggi, quello di essere la principale risorsa che ciascuno di noi ha a disposizione per acquisire le capacità critiche necessarie a selezionare le diverse informazioni e per avere più opportunità ai tavoli della socialità, del lavoro, dello studio, del divertimento, e dunque della vita.
L’idea è insomma che in una società un po’ più giusta o anche solo meno ingiusta le persone possano ragionevolmente e con consapevolezza pensare di essere perché imparano e che su questo terreno sia possibile determinare convergenze significative tra soggetti e interessi diversi.
Dal versante del lavoro, ad esempio, conoscere di più significa avere più diritti e maggiore capacità di tutelare quelli acquisiti, essere più liberi, migliorare la propria occupabilità, lavorare con maggiore soddisfazione. Dal versante dell’impresa, poter contare su lavoratori più scolarizzati e professionalizzati è un fattore competitivo sempre più determinante, in particolar modo per quelle imprese che puntano sull’innovazione, sulla qualità di processo e di prodotto. Dal versante istituzionale (Unione Europea, governi nazionali, Länder, regioni, distretti, ecc.), mettere in atto politiche per la diffusione della conoscenza vuol dire aumentare la competitività dei sistemi territoriali e locali nel loro complesso, definire sistemi di protezione sociale più innovativi e avanzati, favorire processi di inclusione e di partecipazione dei cittadini.
Impariamo, dunque siamo.
E con questo è tempo davvero di procedere oltre.

Frame 15. La profezia di Drucker

Quando Peter Drucker, come ha ricordato un giornalista del Guardian, pronostica la fine delle Università come istituzioni residenziali e la loro trasformazione in fornitori di contenuti per produttori di corsi a distanza, sono in molti a rimanere affascinati dalla lieta novella.
Un po’ di anni dopo, la realtà continua inevitabilmente a presentarsi assai più controversa di quanto la fantasia di Drucker avrebbe potuto immaginare; permane, nonostante i tanti profeti impegnati a celebrare le virtù taumaturgiche della tecnologia, uno spazio decisamente ampio e significativo tra ciò che potrebbe essere o si potrebbe fare e ciò che concretamente è, e si fa.
A guardarla con quella stessa logica globale che si è soliti invocare per giustificare le necessità, le ingiustizie, di sua maestà il Capitale, la faccenda è fin troppo evidente, come dimostrano i 100 milioni di bambini che, secondo l’UNICEF, ancora nel 2005 non sapevano leggere o scrivere. Ma persino se si restringe il campo allo sviluppo dell’e-learning nei paesi economicamente più sviluppati, basta volersene accorgere per vedere una realtà che si contraddistingue soprattutto per: i) il deficit di conoscenze, competenze, padronanza delle nuove tecnologie; ii) la persistenza di sacche disperatamente ampie di vero e proprio analfabetismo digitale; iii) la miriade di docenti che continuano a portare avanti programmi che agli studenti non interessano e a dare rispose a domande che questi ultimi non hanno mai fatto; iv) la difficoltà a valorizzare quelle che Roger Schank ha definito «forme naturali di apprendimento» ; v) i tentativi forsennati di ridurre i costi di insegnamento; vi) la diffusa tendenza a considerare l’e-learning come un processo di trasmissione più che di costruzione della conoscenza; vii) l’eccessiva insistenza su un’idea di apprendimento basato sulle risorse pedagogiche riutilizzabili (di norma courseware formali e brevi, immediati e di orientamento pratico, disponibili in Internet o su CD-Rom, separati dai contesti lavorativi, sconnessi dai rapporti sociali, che trasmettono informazioni e non conoscenza, che chiedono di imparare e non di selezionare).
Il risultato?
La storia dell’e-learning continua ancora oggi ad essere troppo ricca di promesse mancate, di iniziative che non hanno raggiunto reali livelli di sostenibilità (nel senso che non possono sopravvivere senza denaro pubblico), di significativi, talvolta clamorosi, fallimenti, come ha documentato in un suo saggio Joergen Bang, responsabile del dipartimento Information and Media Studies dell’Univer-sità di Aarhus, Danimarca .
I dati principali utilizzati da Bang per sostenere la sua tesi possono essere così come di seguito sintetizzati:

1. la New York University ha investito 20 milioni di dollari in NYU on line senza di fatto aver mai avviato corsi in modalità e-learning;
2. la Columbia University, con altri 14 enti tra Università, biblioteche e musei, ha stanziato 40 milioni di dollari per fondare Fathom ottenendo in pratica un identico risultato;
3. la Cornell University ha investito 12 milioni di dollari in eCornell senza che gli iscritti abbiano raggiunto un numero davvero significativo;
4. la Open University del Regno Unito ha registrato una perdita di circa 20 milioni di dollari nel tentativo di fornire prodotti di apprendimento al mercato statunitense;
5. la e-University del Regno Unito (UKeU), 60 milioni di sterline investite (fondi pubblici), presentata come l’erede mondiale del-l’Open University nel XXI secolo, ha chiuso i battenti 5 anni dopo la sua nascita senza aver mai ricevuto appoggio finanziario dai soci commerciali e avendo conquistato appena 900 studenti a fronte dei 5.000 preventivati;
6. la Dutch Digital Universiteit dei Paesi Bassi, un consorzio formato da Università, imprese ICT, case editrici, fa talmente fatica a decollare che i suoi soci stanno pensando di ritirarsi;
7. l’Università Virtuale della Finlandia e la Net-University della Svezia – entrambe iniziative governative – hanno incrementato il numero di corsi on line, nel tentativo di attirare studenti di altre istituzioni e regioni del Paese, ma la tanto attesa collaborazione istituzionale è tuttora inesistente;
8. l’Università Virtuale di Bavaria, un’altra iniziativa governativa, nonostante offra corsi in modalità telematica agli studenti di tutte le istituzioni della Bavaria, non ha ad oggi prodotto un effettivo miglioramento della collaborazione interistituzionale;
9. le esperienze positive, come ad esempio quella rappresentata dalla University of Phoenix, si devono alla capacità di operare in mercati di nicchia e specializzati come quelli del business e della sanità.

Naturalmente Bang non è stato il solo a mettere, come si usa dire, il dito sulla piaga.
Già in un rapporto OCSE del 2001 veniva ad esempio sottolineato come non ci sia «nessuna prova definitiva del fatto che dagli investimenti in TIC effettuati dal settore pubblico sia derivato un migliore rendimento degli insegnanti e/o degli studenti, né che ne sia derivato un miglioramento della qualità e dell’accesso alle risorse formative nella misura pronosticata» .
Più recentemente, nel 2005, ancora l’OCSE sosteneva in un altro suo rapporto che

in realtà, fino ad oggi l’e-learning non ha rivoluzionato né l’apprendi-mento né l’insegnamento. Gli originali e ambiziosi metodi di insegnamento e di apprendimento che dovevano scaturire dalle TIC sono allo stato embrionale o devono essere ancora inventati. […] L’adozione di sistemi di gestione dell’apprendimento (SGA) [...] sembra essere una delle caratteristiche più notevoli dello sviluppo dell’e-learning nell’istruzione superiore su scala mondiale. [...] L’attuale immaturità dell’apprendimen-to on-line viene dimostrata dalla scarsa adozione di sistemi di gestione di contenuti [...]. Le TIC hanno preso piede nell’istruzione superiore, ma il loro impatto è stato maggiore nei servizi amministrativi (per esempio ammissioni, iscrizioni, pagamento tasse, acquisizioni) che negli aspetti pedagogici basilari dell’aula» .

Gli stessi dati resi pubblici dalla Commissione Europea nell’ambito del documento «Mobilitare le intelligenze europee: permettere alle Università di dare un contributo pieno alla strategia di Lisbona» evidenziano come le Università europee si dimostrino «poco reattive ai cambiamenti sociali e al paradigma dell’apprendimento permanente» e non siano in grado, diversamente da ciò che accade ad esempio negli Stati Uniti, di dare il contributo che sarebbe necessario per sostenere la crescita economica, la coesione sociale, l’occupazione.
Da tale documento emerge anche che nei paesi membri solo il 21 per cento della popolazione in età lavorativa è dotato di laurea o titolo equivalente, a fronte del 43 per cento del Canada, del 38 per cento degli Stati Uniti e del 36 per cento del Giappone, e che naturalmente il minor rendimento delle Università europee, il numero inferiore di pubblicazioni scientifiche, brevetti e premi Nobel dipendono anche dal consistente divario dei finanziamenti dato che in Europa, alla pari del Giappone, si spende in media per l’Università l’1,1 per cento del PIL, a fronte del 2,5 per cento del Canada e del 2,7 per cento degli Stati Uniti (per raggiungere il livello di risorse impegnato dagli USA l’Europa dovrebbe spendere 150 miliardi di euro in più all’anno, anche se c’è da dire che negli USA alla spesa per l’istruzione concorrono in maniera significativa i privati e le imprese).
Di tenore non molto diverso sono le indicazioni che emergono dall’indagine comparativa ALL («Adult Literacy and Life skills») promossa ancora dall’OCSE in 7 Paesi (Bermuda, Canada, Italia, Norvegia, Svizzera, Stati Uniti e Nuovo León Mexico) e realizzata su un campione di cittadini di età compresa tra i 16 e i 65 anni (6.853 le persone coinvolte per quanto riguarda l’Italia), che in pratica dimostrano quanto sia ancora esasperatamente nutrito il numero di coloro che hanno un livello di competenze e di conoscenze al di sotto della sufficienza (per quanto riguarda l’Italia le persone che si trovano al livello più basso, il primo, rappresentano il 46,1% del totale nel caso delle competenze di linguaggio, il 48,8% nel caso delle abilità di scrittura, il 41,7% nel caso delle abilità di calcolo, mentre risultano essere ben il 69,6% del totale coloro che non possiedono sufficienti capacità di problem solving).
Cosa aggiungere ancora?
Che tutto questo rappresenta per chi scrive un dato di fatto, un punto fermo dal quale semplicemente non è possibile prescindere.
Messo il punto non si tratta però di fermarsi, con sguardo più o meno esterrefatto, a guardare, ma di provare finalmente ad andare daccapo, in cerca di ulteriori punti di vista da raccontare, di esperienze da valorizzare, di sentieri da esplorare, di opportunità da cogliere.

Frame 16. Made in GB

A novembre 2006 l’Università di Bristol, Inghilterra, ha reso noti i risultati di una ricerca («InterActive Education: Teaching and Learning in the Information Age»), durata alcuni anni, avente l’obiettivo di indagare le possibilità di utilizzo delle nuove tecnologie del-l’informazione e della comunicazione al fine di migliorare l’insegna-mento e l’apprendimento nella scuola.
Cosa hanno scoperto i ricercatori inglesi?
Che anche dopo l’avvento delle NTI gli insegnanti continuano ad avere un ruolo centrale nei processi si apprendimento dei ragazzi, indipendentemente dal livello di utilizzo delle tecnologie. E che, nonostante i massicci investimenti realizzati, oltre un miliardo di sterline, le NTI continuano ad essere utilizzate nelle scuole in modo sporadico, frammentario, senza una strategia in grado di cogliere e sviluppare appieno le straordinarie possibilità connesse al loro utilizzo e sviluppo.
Almeno tre, secondo gli autori della ricerca, le principali ragioni dell’assai deludente rapporto esistente tra investimenti realizzati e risultati conseguiti:

1. lo scarto assolutamente eccessivo tra la spesa in hardware e software (reti, computer, programmi) e la spesa in formazione necessaria a sviluppare le capacità di docenti e studenti di usare le tecnologie per comunicare e apprendere di più e meglio, ad evitare che i computer diventino una sorta di suppellettili o, nel migliore dei casi, delle macchine per scrivere o fare calcoli;
2. la scarsa confidenza, in molti casi l’ostilità, degli insegnanti con le ICT, considerate più un ostacolo che un’opportunità (ancora una volta, senza qualcuno che li aiuti ad apprendere quali sono le possibilità metodologiche e di contenuto connesse all’utilizzo delle ICT in classe sarà molto difficile invertire la tendenza);
3. la diffusa, reiterata, colpevole sottovalutazione delle opportunità connesse ai processi di apprendimento di tipo informale.

La terapia che i ricercatori di Bristol propongono per invertire la tendenza si basa sulla costruzione di reti (network), una per ogni materia scolastica, nelle quali gli insegnanti lavorino a stretto contatto con i ricercatori per disegnare e valutare progetti che introducano l’utilizzo delle NTI come strumento di apprendimento. Combinando conoscenze di ricercatori e docenti ed esigenze e interessi degli studenti sarà possibile a loro avviso cogliere le opportunità connesse all’utilizzo delle NTI, determinare proposte d’uso in sintonia con le esigenze reali della classe, rendere disponibili per il lavoro delle classi i risultati raggiunti dai diversi network di ricerca.

Frame 17. Finlandia, Francia e Italia a confronto

Altrettanto interessanti anche se di tenore diverso sono le indicazioni che emergono dalla ricerca comparativa promossa dalla CRUI sul rapporto tra Università ed e-learning in Finlandia, Francia e Italia . Nonostante alcuni limiti metodologici, peraltro prontamente evidenziati dagli stessi autori (il numero contenuto di casi studio finlandesi che non hanno consentito un’automatica sovrapposizione tra gli aspetti rilevati nel corso della ricerca e lo stato complessivo dell’istruzione universitaria nel Paese; il processo spontaneo che ha portato ad analizzare un numero tale di esperienze in Francia e in Italia da essere sicuramente significativo dal punto di vista quantitativo senza per questo possedere i necessari requisiti di rappresentatività statistica; ecc.), tale ricerca fornisce un contributo importante alla discussione in atto intorno allo stato e al futuro dell’e-learning in Italia e in Europa.
In maniera necessariamente sintetica, i risultati principali emersi possono essere così come di seguito indicati:

1. in tutti e tre i Paesi considerati le Università hanno superato la fase degli interventi spot e stanno definendo una politica per lo sviluppo dell’e-learning (in Finlandia il 100% degli Atenei mostra di possedere un approccio e una visione strategica rispetto al tema e-learning; in Francia tale percentuale si attesta intorno al-l’80% mentre in Italia, dove però, avvertono gli autori, il processo di sviluppo dell’e-learning è stato avviato più tardi, è di poco superiore al 65%);
2. ciò non si traduce tuttavia nella condivisione di un’impostazione omogenea da parte del corpo docente e delle diverse strutture di ciascun Ateneo, dato che, tanto in Finlandia quanto in Francia e ancor più in Italia, sono il protagonismo e il dinamismo delle singole Facoltà, Dipartimenti, docenti, a segnare l’effettivo stato dell’arte;
3. in Finlandia tutti gli Atenei partecipano ad almeno un consorzio, con punte di 30 partnership dedicate ai temi delle ICT ad uso didattico; in Francia tale partecipazione viene rilevata nell’82% del totale delle Università indagate, anche grazie agli incentivi previsti a livello nazionale; in Italia è il 67% degli Atenei coinvolti a dichiarare di essere impegnato in questo tipo di iniziative, e circa il 40% di essi segnala una presenza in almeno due consorzi;
4. pressoché tutte le Università finlandesi, il 75% delle francesi e l’82% delle italiane dichiarano di avvalersi di una propria struttura interna dedicata ai temi delle ICT e dell’e-learning, ma, mentre nelle Università finlandesi tali strutture sono impegnate in una pluralità di interventi strettamente legati allo sviluppo di attività di e-learning, in quelle italiane e francesi si rilevano ancora significativi margini di potenziamento, in particolar modo per quanto riguarda il ruolo di supporto pedagogico offerto;
5. nei tre paesi l’e-learning viene considerato innanzitutto in quanto modalità utile ad integrare ed arricchire le tradizionali attività in presenza e solo secondariamente in quanto offerta didattica tout court per chi, per ragioni di lavoro, di tempo, di scelta, non può o non intende frequentare l’aula; ad essere ritenuti strategici sono non a caso l’incremento della qualità dell’apprendimento degli studenti e l’offerta di un’elevata flessibilità alle modalità di fruizione della didattica (due obiettivi di potenziamento della didattica tradizionale), mentre si dimostra molto meno significativa l’attenzione verso la domanda di formazione degli studenti lavoratori;
6. nella grande maggioranza dei casi gli Atenei esaminati non solo non ritengono, diversamente da quanto avviene nei sistemi aziendali, l’e-learning una risposta efficace alla necessità di ridurre i costi, ma si dicono convinti che l’avvio di esperienze di e-learning di buon livello richieda investimenti consistenti;
7. nella classifica degli ostacoli maggiori alla diffusione delle attività i docenti occupano un posto assolutamente decisivo, al punto da apparire più rilevanti delle stesse necessità di investimento e finanziamento; in particolare la ricerca indica come prioritarie due resistenze di carattere soggettivo (verso l’accettazione di un approccio fortemente innovativo delle modalità di insegnamento e verso la sottovalutazione delle teorie pedagogiche e dell’impor-tanza dei momenti di didattica in presenza) e tre di carattere oggettivo (il mancato riconoscimento, a livello professionale, in particolar modo in Italia e Francia, del maggiore impegno necessario per progettare, realizzare ed erogare i corsi di studio on line; i nodi irrisolti di natura giuridica in materia di copyright e di proprietà intellettuale dei materiali didattici on line; la scarsità di competenze e di figure professionali dedicate atte a garantire una offerta didattica di qualità in modalità e-learning);
8. un fattore decisivo per la diffusione dell’e-learning nella formazione di terzo livello è il coinvolgimento dei docenti che vanno assistiti nella risoluzione dei problemi tecnici connessi all’utilizzo delle tecnologie informatiche e incentivati attraverso la definizione di condizioni agevolate di acquisto di hardware e software informatico e l’erogazione di incentivi finanziari per coloro che si impegnano in attività didattiche per via telematica;
9. gli investimenti per l’on line non superano mai il 5% del budget annuale di Ateneo; più specificamente i finanziamenti statali appaiono, tanto in Finlandia quanto in Francia e in Italia, decisamente più significativi di quelli dell’Europa e delle Regioni, ma mentre in Finlandia e Francia esiste una specifica voce di spesa nazionale, in Italia sono le singole Università a destinare all’e-learning una parte delle risorse ad esse destinate dal MIUR;
10. in Finlandia gli studenti che utilizzano servizi didattici on line non sostengono ulteriori costi rispetto ai loro colleghi in aula, mentre spendono in media il 13% in più in Francia e il 17% in più in Italia;
11. aggiungendo agli Atenei che già prevedono compensi aggiuntivi per i docenti che sviluppano attività on line quelli che dichiarano di volerlo fare in un futuro prossimo venturo, risulta che circa la metà del sistema universitario sarà interessato a breve da tale pratica;
12. nelle Università dei tre Paesi l’attività di ricerca finalizzata a indagare il fenomeno e-learning è destinata a crescere in maniera significativa anche dal punto di vista quantitativo.

Frame 18. Nella terra dei canguri

Australian Flexible Learning Framework: di cosa si tratta? Di un programma di sviluppo dell’e-learning finanziato dal Governo centrale australiano e dai governi locali con 15 milioni di dollari australiani all’anno e volto a sostenere programmi di educazione tecnologica e professionale nelle aree rurali e tra le fasce svantaggiate della popolazione del continente nell’ambito di una strategia che individua proprio nella possibilità di apprendere a distanza la via maestra per realizzare politiche di riequilibrio a favore delle comunità indigene delle aree rurali e dei cittadini appartenenti alle fasce socialmente svantaggiate.
Due le mosse principali attraverso le quali i promotori del programma sperano di vincere la partita: i) assicurare l’integrazione dei diversi sistemi di e-learning implementati nel corso degli anni nei singoli territori attraverso la definizione di precisi standard di riferimento; ii) realizzare una diffusa rete territoriale di strutture attrezzate con computer portatili e sistemi di video conferenza connessi con banda larga via satellite (per fare un solo esempio, ad uno di questi centri è stata assegnata la missione di trasferire agli indigeni del Queensland occidentale le conoscenze e le competenze di base dei settori minerario, delle costruzioni, dell’ingegneria).
Le priorità definite nell’ambito del programma 2006-2007 sono quattro e precisamente: i) aumentare la capacità di apprendere attraverso l’utilizzo dell’e-learning nelle aree di intervento; ii) accelerare il processo di innovazione; iii) fissare gli standard e i protocolli per i fornitori VTE (Vocational and Technical Education, Formazione Professionale e Tecnologica); iv) rafforzare, sostenere, promuovere le potenzialità della VTE attraverso l’e-learning.

Frame 19. Colorado e-learning

Ancora le campagne sono al centro delle politiche educative e ancora l’e-learning rappresenta la modalità scelta per erogare percorsi formativi in grado di attivare processi di riequilibrio e di pari opportunità a favore di cittadini socialmente in condizione di svantaggio.
Questa volta il protagonista è il Governo del Colorado, che già nel 2001, preso atto della disparità esistente tra la qualità dell’istruzione e dunque delle opportunità a disposizione dei cittadini che vivevano nei centri maggiori e quella dei cittadini delle aree rurali, ha avviato il programma E-Learning Task Force con il compito di colmare il cultural divide che si stava determinando attraverso la creazione di un sistema di apprendimento on line in grado di rappresentare un punto di riferimento per tutte le scuole dello Stato interessate a potenziare e qualificare la propria offerta formativa.
In buona sostanza, in questo caso la scelta non è stata quella di sostituire ma bensì di integrare il sistema formativo preesistente allo scopo di: i) migliorare percorsi scolastici e formativi più deboli; ii) implementare, potenziare, qualificare i programmi scolastici; iii) sviluppare programmi di fascia alta che altrimenti assai difficilmente sarebbero stati accessibili per i ragazzi delle aree interne.
Anche se i problemi sono lontani dall’essere completamente risolti (da una ricerca condotta dallo stesso Colorado Online Learning è emerso che nei distretti con meno di 300 ragazzi – oltre un terzo dei distretti scolastici, 60 su 178, rientrano in questa fascia – l’offerta formativa non supera quella di base pari a 50 corsi, mentre in quelli con oltre 3.000 studenti – 30 distretti su 178 – i ragazzi possono disporre in media di una scelta che supera i 200 corsi) il programma Colorado Online Learning sta facendo registrare un significativo successo: al momento della rilevazione era già utilizzato da oltre la metà dei 178 distretti scolatici ed offriva oltre 60 corsi di alta qualità da integrare nell’ambito dei piani formativi dei singoli distretti.

Frame 20. L’Università ci piace Open

Si chiama OpenCourseWare Consortium l’iniziativa che sta riscontrando uno straordinario successo promossa dal mitico Massachusetts Institute of Technology (MIT) e che può essere a giusta ragione considerata una evoluzione del progetto OCW promosso nel 1999 da MIT e Sloan School of Management e sostenuto finanziariamente da «William and Flora Hewlett Foundation», da «Andrew W. Mellon Foundation» e dallo stesso MIT.
Nel solco di una concezione che ritiene che il sapere sia di tutti e che tutti debbano potervi avere libero accesso, di una missione mirata a rafforzare le competenze professionali di chiunque nel mondo attraverso corsi di formazione avanzati a distanza e di un approccio metodologico condiviso, il progetto OpenCourseWare permette agli utenti di tutto il mondo, senza distinzione di accesso tra docenti e discenti, di accedere via Web a contenuti, materiali e percorsi didattici strutturati in corsi sia universitari che di formazione continua che, anche se non forniscono alcun tipo di certificazione, debbono essere, per far parte del progetto, disponibili gratuitamente, di comprovata qualità, utilizzabili, adattabili, scalabili secondo le logiche dell’open source e della normativa SCORM.
Content partner del progetto sono il Consorzio Universia, che raggruppa Università e colleges di America Latina, Spagna e Portogallo; le Università e gli Istituti di alta formazione aderenti al Consorzio China Open Resources for Education (CORE), il Center for Open and Sustainable Learning (COSL) dell’Instructional Technology Department dell’Università dello Utah State.
Ad oggi aderiscono al progetto Università di 16 Paesi (Arabia Saudita, Austria, Canada, Cina, Colombia, Francia, Gran Bretagna, Messico, Olanda, Portogallo, Spagna, Stati Uniti, Sud Africa, Tailandia, Venezuela, Vietnam) , sono 14 le organizzazioni affiliate (African Virtual University, China Open Resources for Education (CORE), Chulalongkorn University, Creative Commons, Fahamu, Institute for Electronic Governance, Japan OCW Consortium, National Institute of Multimedia Education, National Programme on Technology Enhanced Learning, Opensource OpenCourseWare Prototype System, Thailand Cyber University, Universia, Vietnam OpenCourseWare, The WiderNet Project eGranary Digital Library) e 35 i dipartimenti già attivi.
Sulla stessa lunghezza d’onda si sviluppa il progetto OpenLearn promosso dalla Open University .
Strutturato su due livelli (attraverso il primo, LearningSpace, si accede ai corsi, ai materiali didattici, ai contenuti tutti liberamente utilizzabili; attraverso il secondo, LabSpace, si possono condividere e riutilizzare le diverse risorse educative disponibili), permette anche in questo caso di sviluppare il proprio sistema di relazioni e le proprie conoscenze senza vincoli spazio-temporali.

Frame 21. Casa Italia: come buttare l’acqua sporca e salvare il pupo

Perché negarlo? Se si guarda a ciò che accade in Italia, alla qualità di larga parte delle esperienze fin qui realizzate e dei risultati ottenuti in materia di e-learning è più facile essere presi dallo scoramento che dall’entusiasmo. Non toglie evidenza a questo semplice dato di fatto né la certezza che, come abbiamo visto, neanche nel resto del mondo mancano difficoltà e problemi, né la consapevolezza che anche nel nostro Paese esistono buone pratiche e sperimentazioni interessanti .
La questione è che le buone pratiche che pure qua e là si stanno realizzando sono sconosciute ai più e si disperdono in un universo caotico di «esperienze fai da te» troppo spesso sconnesse le une dalle altre.
L’e-learning italiano non ha ancora un cuore, un’anima. Fa fatica a fare sistema, ad abbandonare l’idea delle conoscenze organizzate in discipline e compresse in forme rigide, gerarchizzate, standardizzate, a passare da una concezione dell’apprendimento fondata sull’in-formazione ad una fondata sulla conoscenza, a sviluppare approcci cognitivi creativi, molteplici, differenziati, in grado di innalzare il livello delle motivazioni e delle aspettative di docenti e studenti.
Assieme alla difficoltà di fondo derivanti dall’essere approdato all’e-learning sulla base di un approccio prettamente tecnologico (per troppo tempo la discussione ha riguardato il tipo di piattaforma da adottare e ciò ha fatto sì che in molte Università convivessero una piattaforma «ufficiale» e altre legate a esperienze dei singoli Dipartimenti, Corsi di Laurea, ecc.), l’Italia paga la limitatezza degli incentivi morali, professionali, economici messi a disposizione dei docenti, gli scarsi investimenti in formazione e la conseguente difficoltà di reperire tra gli stessi docenti le competenze professionali necessarie a uno sviluppo davvero innovativo dei processi formativi a distanza, la mancata definizione di strutture di controllo organizzate sulla base di sistemi di competenze di livello alto.
Se questa è la situazione, di per sé oggettivamente poco felice, a livello generale, lo stato dell’arte si fa addirittura drammatico quando si guarda alle quattro Università che, nell’anno accademico 2005/2006, sulla base di quanto previsto dal d.i. del 17 aprile 2003, potevano definirsi telematiche.
Di certo non a caso, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), nella sua delibera relativa all’attivazione e al riconoscimento di tali Università telematiche, dopo aver espresso «una netta contrarietà all’inserimento nel sistema universitario italiano di un canale parallelo che, non opportunamente disciplinato, potrebbe condurre a una proliferazione di soggetti mossi da prevalenti interessi economico-commerciali» e aver sottolineato che «non appare infine chiara la normativa sul ruolo dei docenti all’interno del nuovo contesto didattico, né quella relativa ai criteri di valutazione della qualità e alla individuazione dei soggetti chiamati ad esprimersi sul punto» ritiene necessario, in riferimento a quelli che definisce «altri aspetti più squisitamente tecnici», redigere uno specifico allegato, di seguito integralmente riportato, nel quale si sottolinea che:

Il decreto interministeriale del 17 aprile 2003 concernente la definizione di criteri e procedure per l’accreditamento dei corsi di studio a distanza delle università è già stato oggetto di considerazione da parte della CRUI in un comunicato dove si indicava nel modello delle open universities britanniche un riferimento da privilegiare per dare attuazione alle innovazioni contenute nel testo. La proposta allora formulata si ispirava alla necessità di predisporre delle iniziative di cambiamento capaci di coinvolgere organicamente l’intero panorama universitario evitando di allestire interventi episodici confinati a realtà isolate del sistema. Due elementi meritano particolare attenzione e garantiscono il buon funzionamento del sistema: l’integrazione tra didattica e ricerca e il rispetto di requisiti minimi per tutte le università. Tale posizione, che tuttora anima il parere della Conferenza, viene rinnovata in questo documento e affiancata da una ricognizione sugli aspetti maggiormente problematici del decreto offrendo, nel contempo, elementi di riflessione e linee guida per tracciare un efficace percorso attuativo da intraprendere.
1. In primo luogo è da rimarcare l’assenza nel decreto di un richiamo alla questione del digital divide, ovvero al problema dell’alfabetizzazio-ne informatica e dell’accessibilità delle nuove tecnologie, al quale la Conferenza assegna invece una rilevanza prioritaria considerandolo sovraordinato all’esigenza di definire criteri di accreditamento. Va riconosciuta la necessità di approntare misure per facilitare, incentivare e promuovere l’utilizzo di strumenti informatici raccogliendo, in tal senso, l’invito diffuso dalla stessa Comunità Europea.
2. Si sottolinea l’opportunità di pervenire ad un’appropriata distinzione tra i significati di formazione a distanza – sufficientemente chiarita nel decreto (art. 3) – e apprendimento mediato da tecnologie telematiche, non di rado erroneamente assimilato alla prima. Infatti, i corsi a distanza vengono tradizionalmente predisposti per fronteggiare problemi di rigidità spaziale e temporale mentre l’impiego delle tecnologie basate sulla rete trova applicazione laddove emergono esigenze di flessibilità, personalizzazione e individualizzazione della didattica in un contesto dove l’interattività dei soggetti coinvolti diviene l’elemen-to portante del processo di apprendimento. Il richiamo all’interattività umana (art. 3) costituisce un aspetto irrinunciabile del programma d’azione e va realizzato attraverso il supporto di personale specificamente qualificato il cui ruolo, tuttavia, difetta di visibilità nell’econo-mia del decreto.
3. L’art. 4 del decreto, che regola l’attivazione dei corsi, fa esplicito riferimento sia ad università statali e non statali sia ad università telematiche, senza tuttavia chiarire i criteri di accreditamento di queste ultime. In particolare, è opportuno specificare se i requisiti finora adottati per l’istituzione delle università siano da estendere anche alle nuove università telematiche o se, al contrario, queste saranno oggetto di diverse regolamentazioni.
4. La CRUI propone inoltre di contribuire alle attività del Comitato di esperti (art. 5) delegando propri rappresentanti per poter interagire con i membri designati dai Ministeri competenti al fine di definire criteri di accreditamento dei soggetti erogatori di formazione on line e dei corsi universitari.
5. Per ciò che attiene alle tecnologie menzionate per l’implementazione del progetto (art. 2.1 dell’allegato tecnico del decreto), si ritiene inopportuno confinare la disponibilità degli strumenti utilizzabili entro un insieme predefinito, alla luce sia del rapido processo di obsolescenza cui sono sottoposte le risorse oggi in uso sia della incessante evoluzione di quelle in divenire. A fronte di un’eccessiva attenzione nei confronti degli aspetti tecnologici si devono registrare le lacune inerenti la gestione dei materiali e il controllo della loro qualità, la scalabilità delle risorse impiegate, le attività di tutoring e mentoring.
6. A partire da un’esigenza di chiarificazione generale in merito al ruolo di tutti i soggetti coinvolti, si pone in particolare la necessità di sgombrare il campo da equivoci in riferimento alle modalità che i Ministeri competenti intendono adottare per rapportarsi al mondo dell’univer-sità e delle comunità scientifiche di settore. Le disposizioni emanate non affrontano gli aspetti relativi ai criteri con cui gli esperti vengono nominati né chiariscono i requisiti che essi devono possedere (art. 5). In accordo ad una corretta logica di valutazione dei processi, preme inoltre ribadire l’opportunità di assegnare la fase di controllo ad organismi terzi, indipendenti e a loro volta accreditati. Un’incognita non trascurabile che pesa sull’impianto del decreto risiede infine nell’assenza di riferimenti alla disponibilità e reperibilità delle risorse finanziarie .

Cosa aggiungere ancora? Che tutto ciò conferisce semplicemente un alone di prevedibilità ai numerosi buchi neri che ad oggi costellano i cieli dell’Università telematica italiana e che si è cercato di rappresentare il più fedelmente possibile nel corso del primo capitolo di questa parte della ricerca. Che il lavoro di Salvatore Casillo e Sabato Aliberti fornisce, a chiunque abbia una qualche ragione, motivazione, interesse per rendersene conto, numerosi, significativi, argomenti a favore della tesi che siamo di fronte a un errore, che ci ostiniamo a pensare non irreversibile, di sistema. E che a riprova di ciò può essere citato, un esempio per tutti, lo scarso interesse suscitato dalla delibera della CRUI con annesso allegato appena citato e che invece, come si avrà modo di approfondire di qui a poco, conteneva alcune indicazioni che sarebbe stato assai utile tenere da conto.

Frame 22. Questioni di sensemaking

Diversamente dai poeti, dai giullari e dai filosofi, ai quali è dato concludere i loro racconti evocando l’allegoria, la sfida, il caso, la vertigine , approssimandoci alla meta proveremo a dare ordine logico, senso, alle idee, ai concetti, alle esperienze, alle relazioni, fin qui descritte e analizzate.
Cercheremo di farlo avendo alle spalle la serena consapevolezza che i pensieri, poco o tanto che costino, si pagano sempre con il coraggio ; che la razionalità con la quale operiamo scelte e assumiamo decisioni è limitata e che dunque l’incongruenza, l’incompletezza, l’errore sono sempre in agguato; che a una stessa domanda possono essere date per definizione più risposte giuste e che ciò fa semplicemente piazza pulita di qualunque pretesa di detenere il monopolio della verità. E avendo innanzi l’obiettivo di attivare un processo che è riflessivo, sociale, istitutivo di ambienti sensati, continuo.
Questioni di sensemaking, insomma. Che nel caso specifico possono essere indagate a partire dalle caratteristiche che, dal versante metodologico e dei contenuti, è utile abbiano i processi di apprendimento che utilizzano le nuove tecnologie dell’informazione per: i) risultare davvero efficaci; ii) aggiungere valore e qualità al nostro sistema educativo e formativo, quello universitario in primo luogo; iii) offrire a più ampie fasce di cittadini l’opportunità di accedere all’istruzione universitaria.
Si può cominciare sottolineando come persino in un mondo come quello attuale, dove, nel bene e nel male, tutto sembra diventato possibile, chiunque avesse avvertito il dovere o la necessità, avuto l’in-teresse o la voglia di guardare a quanto stava accadendo in Europa e nel mondo, o anche solo di leggere i documenti ufficiali prodotti, avrebbe dovuto senza troppe difficoltà rendersi conto che non si trattava di favorire la nascita di 10, 100, 1.000 Università esclusivamente telematiche o di immaginare che il futuro sarebbe stato assicurato dalla standardizzazione dei learning objects.
È possibile che – come si usa dire nella tradizione popolare riferendosi a più pruriginose e meno scottanti vicende – lo sapessero tutti tranne chi lo doveva sapere, nella fattispecie l’allora ministro con annessa maggioranza di governo? Difficile da credere. Più verosimilmente, se si vuole davvero comprendere ciò che è avvenuto, è utile connettere le scelte che sono state fatte con gli effettivi interessi che si è inteso privilegiare, che nel caso specifico non sono stati né quelli istituzionali, relativi cioè al sistema Università e al sistema Paese, né, tanto meno, quelli di coloro che nell’Università studiano o lavorano.
Sta di fatto che in un Paese come il nostro, che per ciò che riguarda l’e-learning non vanta certo una tradizione particolarmente significativa né sul terreno dell’internazionalizzazione (il fatto che al momento in cui scriviamo ancora nessuna Università italiana partecipi ad esperienze consortili di dimensione internazionale sul modello open university precedentemente descritto suggerisce a questo proposito qualcosa di sicuramente significativo), né su quello della propensione agli investimenti, né su quello della capacità di innovazione, una scelta così dichiaratamente sbagliata sul terreno delle strategie non poteva che avere conseguenze pesantemente negative.
Di certo non a caso il processo di crescita non ha riguardato né la qualità delle attività né quella dell’offerta formativa ma soltanto il numero di Università telematiche autorizzate ad operare sulla base del famigerato d.i. del 2003 che in un solo anno ha fatto sì che esse fossero quasi triplicate.
Dato questo contesto, la possibilità di invertire l’ago della bussola, di cambiare la tendenza, è più che mai legata alla volontà, capacità, determinazione di stare in campo, di provare a vincere una partita difficile, che si gioca a più livelli, a partire da quello legislativo, indispensabile per riparare alle storture più profonde introdotte dal decreto.
Ciò detto, si può aggiungere che, tra le mosse necessarie per giocare al meglio la partita, le quattro che seguono sono quelle alle quali a nostro avviso sarebbe utile assegnare una priorità.
La prima mossa si riferisce alle strategie e andrebbe orientata, come ripetutamente richiesto da più parti, dalla Conferenza dei Rettori in primo luogo, alla definizione di una via italiana all’e-learning che, sul modello delle open universities definisca standard condivisi di qualità, realizzi una mappatura delle esperienze in atto, individui tempi e percorsi credibili di inserimento, sostenga lo sviluppo di esperienze di cooperazione e di scambio, diffonda buone pratiche, stabilisca relazioni con le analoghe esperienze avviate negli USA e in Gran Bretagna. Diciotto mesi di lavoro e una struttura articolata a tre livelli (un’apposita direzione del MIUR incaricata di coordinare le attività; una cabina di pilotaggio con le rappresentanze di tutti i soggetti interessati, dai rettori agli studenti, passando per i fondi interprofessionali e le organizzazioni sindacali e datoriali; una task force con i rappresentanti delle esperienze più avanzate a livello nazionale, europeo e mondiale) per un progetto destinato a cambiare il futuro dell’apprendimento, non solo a distanza.
La seconda mossa si riferisce alle scelte metodologiche e punta sul Web come risorsa fondamentale intorno alla quale articolare i processi di apprendimento a distanza, in primo luogo in ambito universitario.
Il messaggio in questo caso è: Web, sempre Web, fortissimamente Web. Che naturalmente non vuol dire esclusivamente Web, dato che il suo utilizzo è assolutamente compatibile non solo con i percorsi di apprendimento in modalità blended, ma anche con i più tradizionali corsi in aula.
Molti fattori concorrono a nostro avviso a fare del Web la piattaforma pour excellence per persone di ogni età, sesso, condizione sociale, alle prese con la necessità di imparare a scuola, all’Università, per tutto l’arco della propria vita.
Tra essi almeno tre meritano di essere segnalati: i) il Web è una piattaforma che connette le persone, le rende nodi attivi della rete, valorizza le loro idee, le loro storie, il loro potenziale ed è dunque particolarmente indicata in una fase in cui, come abbiamo visto, i processi di apprendimento non sono attivati solo dalle risorse di conoscenza messe a disposizione dei discenti ma anche, soprattutto, dalle attività che questi ultimi svolgono per risolvere problemi e dal contesto sociale e lavorativo nel quale essi si collocano; ii) il Web è una piattaforma sempre aggiornata, raggiungibile sempre più velocemente e con un numero sempre maggiore di «periferiche» (telefoni, computer, TV, ecc.), sempre più a misura delle esigenze degli utilizzatori, gli unici a determinare il successo o il fallimento delle nuove applicazioni; iii) le applicazioni del Web 2.0, con la loro capacità di favorire le interazioni e le relazioni, di sviluppare i processi di condivisione e di collaborazione a distanza, rappresentano una naturale interfaccia per processi e percorsi di apprendimento nei quali la capacità di gestire informazioni e conoscenze, di connettersi con le persone e l’ambiente diventa una caratteristica sempre più fondamentale.
La terza mossa si riferisce alla realizzazione di un programma orientato a sviluppare le effettive capacità delle persone di usare le tecnologie, le risorse, gli strumenti, i contenuti oggi disponibili e a sostenere la voglia di conoscere, comunicare, partecipare delle persone di ogni età, cultura, genere, ceto sociale.
L’idea è che per questa via sia possibile avviare uno straordinario processo di inclusione sociale, di ottimizzazione di sistema, di diffusione di ambienti attivati nei quali quando si parla di tecnologia ci si riferisce non solo a un insieme di macchine inanimate ma anche alla capacità umana di usarle, governarle, sfruttarne al meglio le potenzialità.
Per quanto riguarda più specificamente i processi di inclusione si tratta di: i) motivare le persone e dare valore alle opportunità loro offerte dalle nuove tecnologie della conoscenza; ii) fornire loro gli strumenti e le competenze necessarie a utilizzarle in maniera adeguata; iii) sostenere lo sviluppo di reti e relazioni tra persone.
Per ciò che si riferisce invece ai bisogni di ottimizzazione basta sottolineare che le scarsa capacità dei 6,7 milioni di lavoratori classificabili come utilizzatori generici di strumenti di informatica di utilizzare in maniera adeguata le tecnologie dell’informazione si traduce in una perdita ogni anno in Italia di 15,6 miliardi di euro . Il dato è emerso da una ricerca condotta da AICA e SDA Bocconi e a propria volta realizzata sulla base di un’indagine realizzata dal-l’Istituto Nazionale di Statistica della Norvegia dalla quale risulta che ciascun utente non esperto di computer perde 171 minuti a settimana (38 per aiutare i colleghi in difficoltà con il PC, 22 per problemi di stampa, altrettanti in attesa di aiuto, 14 in manovre errate d’accesso ai data base, 13 per tentativi impropri di accesso a Internet, 12 e 11 per problemi legati rispettivamente all’uso maldestro dell’e-mail e dei programmi di elaborazione testi e 6 per problemi legati ai virus informatici) che moltiplicati per i 6,7 milioni suddetti produce un monte ore complessivo il cui costo totale è stato stimato per l’appunto in 15,6 miliardi di euro).
La quarta mossa prevede infine di definire un criterio di urgenza nell’allocazione delle risorse, da quelle, più ingenti, europee, a quelle nazionali e locali, e di assegnare ai tre punti precedenti un carattere di priorità (affinché la faccenda non appaia ancora più impervia di quella che è ed avere un ordine di grandezza al quale riferirsi è utile ricordare che negli anni che vanno dal 2000 al 2004 la sola Unione europea ha stanziato per progetti di formazione relativi ai diversi assi di propria competenza, 11,6 miliardi di euro).
Concludendo, si può dire che si tratta di rendere visibile il «filo della conoscenza» che permette di migliorare la nostra capacità di imparare, comunicare, comprendere, lavorare per tutto il corso della vita; di avere più opportunità ed essere meno esposti all’incer-tezza che ci assale ogni qual volta le cose intorno a noi cambiano, e con esse cambia il mondo al quale siamo abituati; di valorizzare la capacità individuale di arricchire quanto diversamente appreso e di personalizzarlo in base ai contesti effettivi di vita e di lavoro; di limitare i rischi di dispersione del nostro capitale culturale; di essere consapevoli che le risorse educative diventano attive nel processo di apprendimento nel momento in cui diventano gli arnesi che permettono ai discenti di fare (costruire) qualcosa di utile.
In definitiva, è la corrispondenza tra processi educativi e capacità di rispondere alla domanda reale delle persone, ai loro concreti bisogni nello studio, nel lavoro, nella vita, a fare la differenza, a determinare l’efficacia del processo. C’è bisogno per questo di forti motivazioni, chiarezza degli obiettivi, rigore metodologico, elevata qualità dei percorsi di apprendimento, consapevolezza che la stessa formazione universitaria non è più «il» punto di arrivo, integrabile al massimo con il Master o il Corso di Specializzazione, ma una tappa, per quanto importante, di una via all’apprendimento che siamo impegnati a percorrere per tutta la vita.
In questa direzione occorrerà probabilmente indirizzare gli sforzi futuri.

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Frame 22. Questioni di sensemaking

giovedì 20 settembre 2001

Frame 100

Non restare abbarbicati alle proprie ipotesi, guardare a ciò che accade fuori, fare caso al messaggio nascosto -> Carninci -> M1
Farsi contaminare da nuovi contesti -> Esposito -> M2
La fotografia è sempre l'incontro con l'imprevisto -> Assumma -> M6
Essendo un non-for-profit l'obiettivo principale di RIKEN non è fare utili ma avere budget e ritorno di immagine. Il primo arriva dai contributi del governo, dalle attività di spin-off che nel tempo diventano indipendenti e producono business, nuova occupazione, etc., dalle royalties (per la ricerca sul trascrittoma per ora si possono stimare intorno a 1 milione di euro/anno). L’immagine viene dalla tanta ricerca che facciamo, dai risultati che otteniamo, dal riconoscimento da parte della comunità scientifica. Direi che oggi Riken ricava non più di 1/5 di ciò che spende per la ricerca ma naturalmente si lavora per migliorare questo rapporto -> Carninci -> M7
Il nostro è il solo Paese OCSE a presentare un deficit strutturale nella bilancia tecnologica dei pagamenti. Che il rapporto tra laureati che vanno via e laureati che vengono in Italia è all’incirca di 10 a 1. Che sono in aumento sia i cittadini con alta qualifica che risiedono permanentemente o per periodi lunghi all'estero sia quelli che lasciano l’Italia per un periodo abbastanza lungo da richiedere la cancellazione della residenza. Che siamo il paese europeo con meno studenti universitari stranieri e meno occupati stranieri in attività scientifiche e tecnologiche.
Tutto questo non si traduce solo in una perdita secca di cervelli e di risorse investite per formarli. Accade anche, ovviamente, che i cervelli in fuga contribuiscano in misura significativa alla ricerca e allo sviluppo dei paesi nei quali lavorano. Che l’Italia per utilizzare i risultati delle ricerche dirette dai tanti Carninci in giro per il mondo deve comprare i brevetti (tecnicamente viene definito trasferimento tecnologico inverso). -> Moretti -> M7
Per quali vie le patrie “università fabbriche di crediti” e “strutture di ricerca a finanziamenti limitati” potranno farsi incubatori di genialità, collaborazione, interazione, qualità, capacità, sviluppo? -> Moretti -> M9
Favorire la propensione a (ri) definire identità, attivare e dare senso agli ambienti nei quali si studia, si lavora, si fa ricerca.